Nostra intervista con uno degli alpinisti italiani che hanno preso parte alla drammatica stagione di scalate invernali sulla seconda vetta della Terra.
di Stefano Gatti
Un alpinista come tanti ovvero come pochi altri, Mattia Conte. Anomalo ma non nel senso di alcuni suoi colleghi definibili outsider ma ugualmente professionisti e che non di rado - più di questi ultimi - hanno scritto pagine significative di storia dell’alpinismo. Milanese, di professione avvocato, cinquant’anni domenica 14 marzo, Mattia è secondo noi una fonte d’ispirazione. Lo abbiamo intervistato al suo rientro dal K2, dove ha preso parte alla spedizione dell'agenzia nepalese Seven Summits Treks.
Avevamo seguito Mattia, il più possibile "da vicino" nel corso dell’inverno perché la sua presenza in un contesto così estremo (anche solo il coraggio richiesto per provarci è enorme) spiccava tra tante. La sua è una testimonianza diretta degli avvenimenti che si sono susseguiti dei primi due mesi dell’anno all’ombra del K2 ed al tempo stesso l'esempio di come una persona normale (come Mattia stesso si definisce) sia in grado di porsi obiettivi eccezionali e poi di perseguirli il più a lungo ed il più... in alto possibile. In tempi come questi, ripiegati su se stessi, è a nostro parere importante non abbandonare lo slancio in avanti, lo sguardo puntato verso l’alto, che non è necessariamente la vetta della seconda montagna del pianeta quanto invece (banalmente, forse, ma rende l’idea) la propria “montagna personale”.
Mattia, sei rientrato da pochi giorni in Italia dal Pakistan al termine di una stagione invernale al K2 caratterizzata dalla prima assoluta sulla seconda vetta del pianeta nella stagione fredda ma anche dagli incidenti che, lungo le sue pareti, sono costati la vita a cinque dei tuoi colleghi. Quali sono le tue sensazioni ancora per certi versi a caldo, tornando alla vita di tutti i giorni da una “campagna” storica ma dai risvolti drammatici e poi tragici?
Le mie sensazioni sono quelle di aver realizzato un sogno, purtroppo funestato dalla morte di Sergi Mingote, Atanas Skatov, Juan Pablo Mohr, John Snorri e Ali Sadpara. Tutte persone che conoscevo da prima, ad eccezione di John con il quale però c’era subito stata grande intesa, tanto da aver già concordato per il futuro di scalare insieme, sia in Italia che sugli "ottomila". Tutto quello che è successo mi ha lasciato un grande amaro in bocca.
Tu hai fatto parte della spedizione di Seven Summits Treks di Chhang Dawa Sherpa e conoscevi molto bene Mingote, che del gruppo di SST era responsabile per la parte alpinistica. Come vi eravate conosciuti e cosa hai provato quando ti ha chiesto di unirti alla spedizione?
Io e Sergi ci siamo conosciuti sul Manaslu. Ci siamo incontrati al campo Base e, successivamente, ci siamo rivisti in albergo a Kathmandu. Sergi rimase stupito dl fatto che un “novellino” come me fosse salito senza l’aiuto di ossigeno supplementare, tenuto conto che su circa duecento persone presenti al CB solo in quattro fossimo saliti senza ossigeno. Per questo mi chiese se volevo seguirlo in una spedizione diretta ai Gasherbrum I e II nell’estate del 2019. Da quel’incontro in albergo iniziò la nostra amicizia, nel senso che ci cominciammo a sentirci spesso, cominciammo a condividere i nostri allenamenti, e lui venne a Cervinia più volte ad allenarsi con me, fino ad salire insieme nel 2020 il Passo dello Zoncolan in bici! Abbiamo passato tanto tempo e ci sentivamo una volta alla settimana. Oltretutto siamo nati lo stesso anno e lo stesso mese, a cinque giorni di distanza (proprio in questo periodo: Sergi il 9 marzo, Mattia come detto sopra il 14, ndr). Per questo avevamo in progetto di festeggiare insieme i nostri cinquant’anni.
Hai un ricordo particolare, un’immagine di Sergi o un aneddoto comune che possano aiutarci a capire meglio chi fosse l’alpinista catalano nel mondo dell’alpinismo e per te specialmente?
Di ricordi ne ho molti. Sergi era il fratello che non ho mai avuto: conoscevo la sua famiglia e lui la mia. A livello alpinistico era un fenomeno, tanto da riuscire a scalare sette “ottomila” senza ossigeno supplementare in 365 giorni! Era un professionista, era allegro ma soprattutto non si dava arie da fenomeno: una persona che teneva sempre un profilo basso. Da lui ho imparato molto. Quando andammo in Pakistan per scalare Gasherbrum I e II, lui salì una settimana prima di me, perché meglio acclimatato dalle precedenti scalate. Però mi aspettò ugualmente al campo base, sicuro (era l’unico a crederlo) che sarei arrivato anch’io in vetta. Anzi mi venne incontro sulla via del ritorno. Inoltre Sergi è colui il quale ha organizzato la spedizione di centinaia di chili di materiale (scarpe, giacche), raccolti per i bambini di alcuni villaggi pakistani.
Come hai vissuto i momenti dell’incidente? All’inizio eri stato addirittura scambiato per lui…
Appena avvenne l’incidente uno degli sherpa mi si avvicinò (io stavo scendendo dal “muro” tra Campo 1 Campo 1 Avanzato) e mi chiamò “Sergi”, dicendomi che Mattia era caduto e si era fatto male. Ciò perché Sergi ed io avevamo un tutone simile. Quando trasportammo la sua salma con i dieci sherpa di Seven Summits e con Juan Pablo - dal luogo dell’incidente al Campo Base - durante quelle interminabili sette-ore passai più tempo in ginocchio a piangere che a camminare… Non riuscivo a capacitarmi che Sergi non ci fosse più.
Oltre a Mingote, conoscevi anche gli altri alpinisti che non sono tornati? E con che livello di conoscenza appunto e di frequentazione?
Sì, li conoscevo tutti. Li avevo già incontrati tutti in precedenza, tranne Snorri. Atanas lo incontrai sul Dhaulagiri: gran brava persona. Con lui ci soffermammo spesso a parlare della sua dieta vegana e delle implicazioni che quel tipo di filosofia alimentare potesse avere nelle scalate di alta quota. La sua perdita è stata uno shock: non era certo un novellino. Juan Pablo era un caro amico, conosciuto anche lui sul Manaslu e reincontrato con Sergi sul Dhaulagiri. Probabilmente il più forte alpinista che abbia mai conosciuto. Unico a scalare l’Everest senza ossigeno supplementare nel 2019. Ali lo incontrai sul Nanga Parbat, dove ero andato ad acclimatarmi con Sergi prima di andare al Gasherbrum. Posso dire che era considerato, a giusto titolo, il più forte ed esperto alpinista in Pakistan. Una persona sempre disponibile e gentile. Avevo in progetto di scalare con lui il “Nanga” perché nessuno meglio di lui conosceva quella montagna. Lo rividi quello stesso anno alla cerimonia di consegna dei diplomi di scalata a lui ed al figlio Sajid (che aveva scalato in età giovanissima il K2) nella città di Skardu. John Snorri, invece, lo conobbi su K2. Mi ospitò nella sua tenda a Campo 2 (insieme ad Ali) e fu di una cortesia smisurata. Anche lui gran professionista, sognatore come tutti noi, ma anche concreto. Ho passato parecchio tempo insieme a lui dopo la scomparsa di Sergi, anche ad ipotizzare spedizioni future. Era un vero e proprio “lord della montagna”, perché in quanto a signorilità nessuno lo poteva battere: un esempio da seguire.
Ritieni che abbiano perso la vita salendo verso la vetta oppure nella fase di discesa dalla vetta? Di che tipo di incidente pensi possa essersi trattato? Sajid Sadpara, ha dichiarato di voler tornare sul K2 nella stagione estiva per una missione di ricerca ed eventualmente recupero del padre e dei suoi due compagni. Quali probabilità di successo pensi possa avere questo progetto?
Sulle circostanze e sulle cause dell’incidente non ho elementi per affermare alcunché. Posso dire che faceva molto molto freddo: circa sessanta gradi sottozero. Anche sulle possibilità di successo della spedizione estiva di ricerca non ho elementi per pronunciarmi: vale la pena di non lasciare nulla di intentato, ma non ho proprio idea di che condizioni si potranno trovare una volta raggiunti i 7600 metri di quota.
Dopo la scomparsa di Mingote, ti sei in pratica ritrovato a scalare da solo: quali sono state le evidenti controindicazioni e quali invece i “vantaggi”, o per meglio dire le circostanze derivanti dal salire da solo che ritieni possano magari averti “salvato”, evitandoti di corre rischi ancora più grandi.
Salire da solo è stata perlopiù una “fatica” psicologica: sapere che il tuo amico/mentore non c’è più, è devastante. Ci pensavo quasi ad ogni passo. Di vantaggi non vedo, nel senso che quando cominci a salire sei comunque da solo (nessuno ti porta su), ma l’idea che che qualcuno ti aspetta al campo dove stai salendo, è una cosa importante. Purtroppo non era più così.
Il freddo estremo, le difficoltà tecniche della via, la rivalità o la concorrenza con gli altri alpinisti. In che ordine metti queste voci tra i fattori “limitanti” sul K2 questo inverno?
Sicuramente il freddo è l’elemento più devastante di una salita in invernale. Insieme al vento, che ne accresce la sensazione. Il freddo estremo ti logora, ti “ruba” delle energie preziose aumentando notevolmente la fatica e di conseguenza i tempi di salita. Non ho mai sentito alcuna rivalità con gli altri alpinisti né credo loro con me visto che non mi ritengo al livello dei più forti.
Che lezione trai tu personalmente, dai fatti del K2? Intendo dire a livello di etica alpinistica, di condivisione degli sforzi, di convivenza di più spedizioni e di diversi stili di scalata nello spazio ristretto del campo base e nei tempi ugualmente “stretti”, perché condizionati dalla durata delle finestre di bel tempo? Oltre che, sulla montagna, dalla conseguente contemporaneità di rotazioni e di eventuali summit push?
Per quanto riguarda l’etica alpinistica sarò banale ma devo dir che, se prima avevo grande rispetto per la montagna, ora ne ho ancora di più: è lei che ci accoglie! Sulla convivenza con gli altri alpinisti mi verrebbe da dire che, come in tutte le situazioni dove coesistono parecchie persone, si incontrano soggetti con un ego smisurato e persone con un profilo basso che non si danno arie malgrado siano fortissime.
Parlaci un po’ di te: all’alpinismo sulle montagne più alte del pianeta sei arrivato dopo esperienze sportive in discipline ed in “terreni di gioco” parecchio lontani dal mondo delle alte quote. Ma poi è proprio così?
Sicuramente la montagna è un terreno di gioco relativamente nuovo per me, nel senso che il mare è stato per lungo tempo la mia prima passione. Ciò mi ha portato a doppiare Capo Horn in barca a vela ed a riscontrare molte similitudini con la montagna: la disciplina necessaria deve essere la medesima, il fatto di non sottovalutare mai gli eventi atmosferici e soprattutto l’impossibilità di fermarsi quando lo si desidera. Questo comporta una attenta valutazione e rispetto della natura e del meteo.
In alpinismo, quali sono state le tue realizzazioni?
Il mio curriculum alpinistico non è poi così completo! Allenamenti a Cervinia, Monte Bianco e subito un paio di ottomila: Manaslu e Gasherbrum II, in un anno, passando per un acclimatamento fatto con Sergi su Nanga ed una spedizione - sempre su invito dello stesso Sergi - al Dhaulagiri. Quest’ultima unitamente a Carlos Soria, altro monumento mondiale dell’alpinismo.
Tu tra l’altro scali gli "ottomila" senza ossigeno supplementare. Per te è una “conditio sine qua non”?
Scalare senza ossigeno è una scelta di campo e di vita. Ed è il motivo per cui Sergi, inizialmente, mi propose di condividere delle spedizioni con lui. Al tempo stesso, non critico e non ho preclusioni mentale verso quelli che vi fanno ricorso. Sul K2 questo inverno eravamo in cinque su ventidue a non volere utilizare ossigeno supplementare. Quindi direi che eravamo abbastanza pochi, ma questo non toglie nulla alla prestazione degli altri.
Al di là del valore senza dubbio eccezionale dell’exploit, tu come valuti l’impresa compiuta dai dieci nepalesi che lo scorso 16 gennaio hanno realizzato la “prima invernale” sul K2?
L’invernale sul K2 era l’ultima scalata di un “ottomila” mai riuscita al uomo. Il merito dei dieci nepalesi secondo me, oltre ad essere grande, nasce molto prima, perché è grazie a loro che noi siamo potuti salire. I nepalesi (ed in parte Snorri e Sadpara) hanno messo tutte le corde fisse che hanno poi permesso a noi di salire!
Conosci Nirmal Purja? Ce ne fai un sintetico ritratto?
Lo conobbi sul Nanga Parbat: all’epoca stava compiendo il suo progetto: scalare tutti gli ottomila in meno di un anno. Abbiamo fatto insieme il trekking verso i Gasherbrum e nei mesi scorsi ci siamo frequentati sul K2. Nims rappresenta l’immagine di un alpinismo di alta quota moderno ed evoluto. Molto forte, attento ma anche un’ottima persona sotto il profilo umano.
Mattia, pensi che il K2 2021 possa influenzare i tuoi progetti futuri a livello alpinistico oppure il tuo modo di essere? Insomma, come si rielaborano drammi ed emozioni, fatiche e sacrifici, passione per le montagne e perdita di colleghi ed amici?
Per quanto concerne il mio “futuro alpinistico” ho già ripreso gli allenamenti con Fabio Vedana che (in seno a Best Performance team) mi ha aiutato e mi aiuta ad avere una condizione fisica idonea per scalare un ottomila. Il prossimo progetto sarebbe l’Everest in invernale il prossimo anno, montagna più… affabile rispetto al K2, ma certamente dura e interessante. Voglio sottolineare che io, non essendo un professionista, avrò bisogno di allenarmi maggiormente rispetto al K2 e poi ritengo che sarà necessario il perfezionamento di alcuni materiali che secondo me non sono stati sufficientemente idonei a reggere certe temperature. Quando mi sono fermato ed ho deciso di tornare indietro, perché la finestra di bel tempo si stava chiudendo, non ero sufficientemente acclimatato e la temperatura era scesa a 49 gradi sottozero. In un simile contesto mani e piedi erano prossimi al congelamento. Sicuramente questo è un aspetto su cui lavorare. In ultimo, per pensare di poter partire il prossimo anno, occorre reperire i fondi adeguati, tramite sponsor che vogliano accostare la loro immagine ad una persona normale, un non professionista che intende scalare l’Everest d’inverno. L’esborso in questo caso è minore (circa la metà) rispetto a chi sale con sherpa ed ossigeno supplementare ma… i finanziamenti sono comunque necessari per poter partire.