RALLY AVVENTURA

Molto lontano, incredibilmente vicino: Fabrizio Meoni, sedici anni fa l'incidente alla "Dakar"

L'11 gennaio del 2005 perdeva la vita Fabrizio Meoni, indimenticato vincitore di due edizioni della "Dakar", vittima di un incidente nel corso della 27esima edizione del rally.

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Era alla sua ultima partecipazione alla "Dakar", Fabrizio Meoni, in quell'inizio d'anno lontano più di tre lustri. L'aveva vinta due volte consecutivamente in sella alla KTM: le prime perle di una collezione lunga diciotto anni per la Casa austriaca, inaugurata quando al timone della corsa c'era Hubert Auriol, altro dakariano leggendario appena scomparso. L'incidente fatale durante la Atar-Kiffa del 2005, nel deserto della Mauritania. Abbiamo affidato il ricordo di quelle ore, di quei giorni, ma soprattutto dell'uomo Meoni ad Alberto Porta, inviato di Newsmediaset.

La prima stretta di mano: decisa, forte, amica. Sabato 31 dicembre 1994, Granada, vigilia della partenza della "Dakar". È il compleanno di Fabrizio, ci conosciamo da pochi minuti e già scatta complicità, dovuta alla coincidenza di carta d’identità ed alla comune passione. Seguirlo nella sua carriera nei rally-raid, iniziata tardi ma senza rimpianti, è dovere professionale ma soprattutto vicinanza, stima. Rispetto e affetto. C’è per fortuna il telefonino - non ancora smartphone - a tenere accesi contatti lungo avventure professionali che ci tengono distanti: lui sulle piste polverose e desertiche, io su quelle d’asfalto del Motomondiale. Sì, ma a gennaio c’è sempre la "Dakar" e - quando la vince per la prima volta, nel 2001 - al ritorno Fabrizio sbarca a Linate e prima di salire sul treno che lo riporterà a casa decide di passare in redazione a salutarmi e mostrare fieramente il trofeo appena conquistato alla redazione di Grand Prix, per l'occasione riunita al gran completo. L’abbraccio mi toglie il fiato. Pranzo insieme alla mensa di Mediaset, l’intervista di rito, poi Fabrizio torna nella sua Castiglion Fiorentino da Elena, Gioele e Chiara. Marito e padre felice, orgoglioso, finalmente in pace con se stesso, la convinzione di potercela fare nella gara più dura al mondo divenuta realtà. I francesi lo avevano battezzato Le Sanglier Touscain, il cinghiale toscano. Forte, diretto, schiettezza senza limiti e confini, dakariano da leggenda dopo la seconda vittoria consecutiva nel 2002 con il bisonte, la KTM 950 bicilindrica, roba per pochi e quindi destinata in breve al museo. Pochi giorni prima della partenza per la Dakar 2005, la classica telefonata che serve anche a scambiarsi gli auguri per Natale.

È l’ultima che faccio, poi basta. Solo consulenze e divertimento. Quando torno ci sentiamo. Ti voglio portare sulle dune, in Tunisia. Stiamo là una settimana e ci divertiamo come matti”.

La mattina dell’11 gennaio - un martedì - la botta secca, un cazzotto in faccia alla notizia dell’incidente. Per fortuna subentrano le energie indispensabili a scacciare le lacrime e realizzare insieme a Guido Meda uno "speciale" da mandare in onda la sera stessa. Il giorno del funerale - programmato per il pomeriggio - passo prima a casa sua per un breve saluto. Elena mi chiede di fermarmi per il pranzo: sono un po’ imbarazzato ma accetto. Calore prima del freddo addio. Nei mesi successivi mi dissi che non avrei più stretto forti rapporti umani con i piloti. Troppo alto il rischio di perdere amici lungo la strada. Non ci riuscii perché proprio allora stava nascendo un’altra amicizia che sarebbe stata drammaticamente spezzata: quella con Marco Simoncelli. 

 

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