Sebastian Vettel è diverso da tutti gli altri, e lo sta dimostrando. E oltre a essere un “quattro volte campione del mondo” (concetto ripetutamente espresso, manco fosse un mantra, da Vanzini in cronaca), è anche un uomo con un preciso centro di gravità permanente, mai indifferente. Stoico, sì: perché è riuscito a fuggire dai vincoli strettissimi della disperata ricerca del successo apparente, fugando dubbi e perplessità che vedono nella costanza l’unico termine di paragone e misurazione del talento, spesso e volentieri, fortunatamente, ancora umano.
Cerchiamo un bene che non sia appariscente, ma solido e duraturo, e che abbia una sua bellezza tutta intima: tiriamolo fuori. Non è lontano; si troverà
(Seneca, De vita beata)
Quella di Baku, ma più in generale la sensazione lasciata dagli ultimi GP, non è stata una rivincita contro la Ferrari, contro il suo recente passato e contro le delusioni legate a doppio giro all’ultimo anno: è stata soprattutto, e anzitutto, una rivincita contro se stesso. Poi viene il resto: una volta indossato l’Araxchin, un distinto copricapo ricamato riconducibile alla tradizione azera, lo scorso 6 giugno, Seb sa di aver compiuto un’impresa. Ritornare sul podio, assaporarlo dopo quasi sette mesi dall’ultima volta (in Turchia, a novembre): ricordare che tutti possono essere dimenticati, nel motorsport e non solo, ma che c’è ancora molto da dire, sfruttando la scia dei ricordi, sorpassandoli.
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