Dove sono finiti i sostenitori del manager tedesco?
In Italia ci sono due tipi di esterofilia, ben diversi e con un differente grado di insidia. Il primo è quello tipicamente popolare, non tanto una ragionata ammirazione per l’estero quanto invece un fascino dialettico dettato da una caratteristica – invece – italianissima: l’arte di lamentarsi. Come ci lamentiamo noi in pochi, forse nessuno. Si può quasi dire che il lamento quotidiano contribuisca a mandare avanti le nostre vite, ad esorcizzare il “male”, a consolarci reciprocamente. Per questo l’esterofilia popolare è poco più che un ritornello demagogico: a parole e in pubblico un topos di sicuro successo e approvazione, nei fatti e in privato un elemento estraneo e non realmente sentito.
Poi però c’è l’esterofilia delle classi dirigenti e soprattutto “culturali”, in particolar modo giornalistiche. Un’ammirazione che ha sempre un sottotesto elitario, anti-popolare, progredito ancor prima che progressista. È la stessa esterofilia che stava srotolando un tappeto rosso a Rangick prima che arrivasse al Milan, tratteggiando i contorni di un personaggio che avrebbe potuto, finalmente, redimere il nostro calcio strutturalmente reazionario. Sia chiaro, questo non è un articolo sulla storia di Rangnick, su cosa avrebbe potuto fare in Italia, sul suo genio tattico e manageriale e chi più ne ha più ne metta.
Per una volta ci interessano le interpretazioni più che i fatti. Non stiamo dicendo che Rangnick al Milan avrebbe fallito impantanandosi in dinamiche troppo italiane (come capitato a tanti altri, allenatori e direttori sportivi), quanto invece che il tedesco non era l’unica scelta possibile e sensata come invece fatto credere da buona parte della narrazione. È il solito dogmatismo di chi crede di essere sempre più esperto, più tecnico, più avanti: l’unico modo per ricostruire una squadra senza anima, senza risultati e con i conti in rosso era la visione avanguardista di Ralph Rangnick, punto e basta. Beh, i fatti hanno detto un’altra cosa.