Se lo spettacolo non è in campo ma sugli spalti
Edouard Berth nel suo Les méfaits des intelectuels affermava, senza esitare, che la vera fonte dello spirito di libertà è l’azione pratica. Sembrano averlo dimenticato le tifoserie delle squadre presenti quest’anno nei gironi di Champions League, con un clima che sugli spalti ricorda vagamente lo stadio vuoto durante il periodo pandemico. Con le dovute eccezioni, rappresentanti di piazze con una tradizione ultras quali Ajax, Young Boys, Atalanta e altre (in questo senso non può stupire il preoccupante assalto dei bergamaschi ai tifosi dello United, avvenuto con spranghe e cinte in un pub cittadino la sera prima del match e già costato 4 Daspo), ad essere netta maggioranza sono tifoserie che passano gran parte della partita sedute, o in qualche caso anche pagata per essere sugli spalti.
Fortunatamente quest’anno come antidoto allo scialbo (almeno sulle gradinate) mercoledì di coppa, sembra esserci il giovedì.
L’Europa League, quella che conta di meno. Prendendo ancora in prestito le parole del sindacalista francese, qui siamo nel cuore della vita. Il torneo è vivo, allegro, impetuoso e al suo interno «forme nuove rompono incessantemente le vecchie, senza che si abbia il tempo di cadere intorpiditi nella monotonia». Livello della competizione notevolmente più alto degli anni scorsi, numerose squadre con tradizioni ultracentenarie che popolano i vari gironi, ma non è questo che oggi ci interessa. Il punto è che è tornata la gente, non i cartonati. Persone passionali e arrabbiate, non automi freddi e razionali.