Amare la prima settimana degli Slam

Il cuore dei Major è la culla degli appassionati

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In una delle sue frequenti e piacevoli scorribande letterarie nel mondo del tennis, David Foster Wallace consegnò alla rivista statunitense “Tennis” – supplemento del NY Times – uno splendido reportage sull’edizione 1995 degli U.S. Open: Democrazia e commercio agli U.S. Open (edito in Italia da Einaudi nella raccolta “Il tennis come esperienza religiosa”). Il più grande scrittore americano contemporaneo, strappatoci troppo presto dai suoi demoni, aveva scelto per il saggio sul torneo di Flushing Meadows la prima settimana di competizione.

I quattro tornei del Grande Slam, infatti, sono gli unici momenti in cui il circuito professionistico, in oltre undici mesi di pellegrinaggi attraverso i cinque continenti, si ferma per due settimane nello stesso luogo, sia per la kermesse maschile che per quella femminile. La distinzione tra la prima e la seconda settimana è tradizionalmente lo spartiacque tra successo e fallimento: è nella seconda settimana che si scrive la storia, si aggiornano i record, si incidono i nomi sulle coppe. Nella seconda settimana sale l’intensità dei match, rimangono solo i nomi di cartello, i giocatori di classifica.

Eppure, la scelta di Wallace di raccontare proprio la prima settimana degli Open americani non è casuale. In essa vi è la volontà di cristallizzare esattamente quel momento per restituire il sapore più autentico della manifestazione: «siamo al cuore pulsante del torneo, siamo alla guerra di trincea e ai nomi interminabili». Per i veri fanatici di tennis, nulla è paragonabile alla prima settimana degli Slam.

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