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Da campione a clochard. Le mille vite di Maurizio Schillaci

18 Ago 2021 - 07:49

Sono tanti, troppi, i talenti inespressi del calcio nostrano ed internazionale. Quanti i ragazzi che chiamati alla definitiva consacrazione non hanno saputo rispondere per poi cadere nella solitudine, lontani dai grandi palcoscenici di un tempo, dimenticati da tutti. Il palermitano Maurizio Schillaci, classe 1962, è uno di questi. Trequartista dai piedi educati, secondo Zdenek Zeman – che lo ha allenato – “per mezzi, colpi e intelligenza calcistica avrebbe potuto giocare in Serie A senza difficoltà e farlo a grandi livelli”.

Un infortunio mal curato che ne ha pregiudicato la carriera prima, il tunnel della tossicodipendenza (da cui è uscito) poi. Dai contratti a sei zeri con la Lazio alla vita da clochard. Quella di Maurizio Schillaci è la parabola di un antieroe che corre parallela a quella del cugino Salvatore, l’eroe di Italia ’90. Ma vediamo meglio.

Il rosa e il nero

Siamo a cavallo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, in una Palermo espressione di miseria e nobiltà, splendore e decadenza; specchio fedele del nostro protagonista. Quest’ultimo – così come il cugino Salvatore – è figlio di pescatori e cresce in pieno centro storico, forgiato dagli stretti vicoli del terzo rione della città: Monte di Pietà, meglio conosciuto come “Il Capo”.

Qui, nel sagrato della Chiesa di Santa Maria della Mercede, inizia a dare del tu al pallone e si sa – per dirla con Borges – ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada lì ricomincia la storia del calcio. Come d’abitudine infatti, si svolge – diametralmente opposto al rituale cattolico – lo stesso dogmatico e canonico cerimoniale laico: si scelgono due capitani, si formano le squadre e ci si affronta in epiche battaglie sul selciato. Maurizio è sempre il primo ad essere pescato da uno dei due sfidanti. Non Salvatore. Ma lui, Maurizio.

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