Padova, amare l'amaro

Sotto la notte stellata di Giotto, il calcio è una ferita aperta

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Il 28 novembre 2004 è la prima domenica di Avvento. Le macchine fluttuano dalla vicina tangenziale ovest verso i parcheggi di Piazza Insurrezione o dell’ex Foro Boario, spazio adibito un tempo al mercato del bestiame, a poca distanza dal Prato. Le vetrine luccicanti del centro e le porte aperte dei negozi addobbati a festa invogliano i primi coraggiosi dello shopping a dare la caccia ai regali natalizi. I più golosi invece, si indirizzano verso le caldarroste di Duilio in Piazza della Frutta: semplicemente le più buone della città.  È una giornata uggiosa, come spesso accade a quelle latitudini in prossimità del solstizio d’inverno. Freddo umido e cielo plumbeo, sono il contorno ideale in mezzo alla brughiera inospitale e poco curata dove sorge quell’ammasso di cemento e scarsa funzionalità che risponde al nome di Stadio Euganeo

Uno scenario che non ha nulla da condividere con gli spazi mozzafiato che si aprono dalla Tribuna Ovest dello “Stadio Silvio Appiani”, gioiello architettonico della Padova che fu. Un orizzonte da cui si ammirano, in tutto il loro splendore e rigore, le otto cupole cinque-seicentesche della basilica abbaziale di Santa Giustina. Devozione spirituale e liturgia pagana sovrapposte e sovrapponibili, perché la fede, a Padova, è una cosa seria. L’Appiani molto più di un semplice stadio. Meta di pellegrinaggio civile, teatro di drammi e gioie sportive, incuneato all’interno di Santa Croce, polmone verde e quartiere sofisticato ai bordi delle mura del ‘500 dal bastione omonimo. Con poco meno di centodue passi a nord-ovest si arriva in Prato della Valle, la piazza più grande d’Italia (o almeno così insegnano in città).

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