Lunga vita al Lanerossi Vicenza

La squadra e la città, unite per sempre

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Vicenza, la guardi e velata sfugge. Soltanto chi sia asceso al suo colle sacro può forse dire di averci capito qualcosa di più, alla maniera delle formichine che la domenica, azzimate come possono, si vedono salire sulla cima di Monte Berico, contando passo dopo passo i gradini che portano alla Madonna del loro Santuario.

Da lassù Vicenza appare come una piccola Lisbona senza oceano, intarsiata da viuzze e osterie, da ramificazioni irregolari e armoniche linee neoclassiche; una Praga disegnata da Palladio, reale e immaginifica allo stesso tempo, fatta anche di magie, a cui nessuno conviene di non credere, e di speranze radicali, accompagnate come un’ombra dall’atavica rassegnazione della sua gente. Una terra che si ama e si odia: con astio quando, filistea come poche sanno essere, pare restringersi nel suo perbenismo di facciata; ma anche con l’intenerito affetto che ti cava a forza il luogo natale. Che come tutti i luoghi natali porta su di sé le palpabili tracce di coloro che lo vivono.

Uno di questi segni, senza il quale a fatica si può comprendere l’anima viva del capoluogo veneto, ha a che fare con il calcio, il cui legame con la città si trova inciso sulla sua scorza di mattone da ben prima che le regole del gioco fossero messe per iscritto. Chi passi per Via Corpus Domini, laddove un tempo dimoravano le agostiniane, facilmente si imbatte in una prodigiosa premonizione di quello che sarebbe stato il rapporto tra i vicentini e il pallone: un chiassoso sbalonare di piazza, tra le urla scoccate da parte a parte, con le imprecazioni di chi subisce e l’irriverente esultanza di chi ha messo a segno un punto in più.

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