Lo sport è politica, non propaganda

Gli atleti impegnati non sono tutti uguali

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Il recente botta e risposta tra Ibrahimovic e Lebron ha riacceso il soporifero dibattito inerente la legittimità delle prese di posizione politiche degli atleti. Soporifero non per mancanza di netflixiani plot-twist e godibili baruffe, ma per quella sua certa attitudine – in vero anch’essa molto netflixiana – a basarsi su canovacci triti e ritriti, imbellettati a seconda della moda del momento: da un lato i puri, sempre, che non accettano che lo sport venga utilizzato dalla politica per ottenere consensi. Dall’altra i giusti, ovvero chi tramite lo sport non fa di certo politica (ormai un tabù) bensì aiuta il mondo a progredire.

Per evitare di cadere in facili partitismi sembra necessario affrontare il problema del ruolo politico degli sportivi promuovendo una discussione diversa, che superi tale tipo di schermaglie e soprattutto che riconferisca spessore umano alla figura dell’atleta, in accordo con le parole di Ibrahimovic. Tutto è iniziato quando in un’intervista rilasciata a Discovery+ Sport lo svedese ha criticato l’esposizione politica del suo ex concittadino di Los Angeles: «Quello che fa LeBron è fenomenale, però non mi piace quando le persone con qualche tipo di ‘status’ parlano di politica. Fai quello in cui sei bravo. Fai quello che fai. Io gioco a calcio perché sono il migliore nel giocare a calcio». L’attivismo politico imputato a Lebron è quello relativo alle battaglie contro le discriminazioni portato avanti da Black Lives Matter, ovvero «l’intervento ideologico e politico in un mondo in cui le vite dei neri sono sistematicamente e intenzionalmente colpite a morte», secondo una delle sue tre fondatrici Alicia Garza.

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