Il portiere è un uomo solo

Metafisica di un ruolo da pazzi e antagonisti.

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La coscienza collettiva, come scriverebbe Durkheim, individua nel ruolo del portiere più spesso un’imposizione che una scelta. Dai primi calci tirati al pallone, i più giovani applicano una poco democratica e decisamente autoreferenziale divisione tra chi è ritenuto più o meno capace nel gioco del pallone. Pallone, chè di calcio ancora non si può parlare, siamo nel campo del disordine, della passione irrazionale, dell’emulazione degli idoli visti allo stadio o in tv. Tra questi bambini spicca quello che alcuni potrebbero ritenere il più sfortunato: privo di particolari abilità, si trova a giocare più per gioco appunto che per interesse, e così a quel bambino viene imposto il ruolo del portiere.

Nessun errore di un attaccante, nessun passaggio sbagliato di un centrocampista, nessun intervento in ritardo di un difensore sortiscono lo stesso effetto di un errore del portiere. È lui il primo indiziato quando si subisce una rete, e questo i bambini lo realizzano tramite l’equazione per cui ad ogni goal subito corrisponde un errore del portiere. Certo, quest’equazione gode di corollari e aggiustamenti crescenti e progressivi all’aumento dell’età, ma in un gioco di squadra il portiere resta quello che era anche se da bambino diventa un uomo. Un uomo solo.

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