«Baùscia e casciavìt, filàr de Barbacarlo…la pènna l’è on’ortiga, la pènna l’è on mestée…» canta Claudio Sanfilippo in una canzone dedicata a Gianni Brera, in immancabile dialetto lumbàrd. Ma chi sono i “baùscia”? E chi i “casciavìt”? Per spiegarlo, è necessario fare qualche passo indietro e tornare ai primi anni delle due società meneghine, durante i quali il Naviglio non divideva soltanto le due squadre di una stessa città, ma contrapponeva anche le due tifoserie, ben radicate in contesti sociali differenti.
I termini vennero infatti coniati negli anni Venti del Novecento, periodo in cui le differenze di classe erano molto marcate e sentite. Ecco quindi che i tifosi rossoneri vennero bollati come “casciavìt”, in dialetto milanese “cacciaviti”: stiamo parlando del simbolo per eccellenza del lavoro operaio e manuale che condiva le giornate del proletariato meneghino, grande bacino della tifoseria milanista. Il “casciavìt” viveva in periferia e a volte era uno dei primi emigrati dal Mezzogiorno. Certamente, in ogni caso, era escluso dal lusso della vita del centro.
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