Luciano Bianciardi e quella notte speciale a Cagliari

Conversazioni alcolico-notturne con Scopigno tra Hegel, Guttuso e Gershwin

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Dal bar dell’albergo, il cameriere arriva con un whisky e una vodka. Il whisky è per l’uomo grande e grosso che parla con accento toscano. La vodka invece è per l’altro, con quella “faccia da italiano antico, appenninico” e il fisico più minuto, che preferisce ascoltare e interviene più di rado. È la notte fonda d’un sabato d’aprile e in giro per l’hotel ormai non c’è più nessuno. Solo quei due uomini, due altri bicchieri ancora, un altro giro di bevute, il cameriere che avrebbe voglia soltanto di andare a dormire.

I Beatles si stanno sciogliendo, Italia-Germania Quattratré non esiste ancora nemmeno nella fantasia, l’Apollo 13 è quasi sulla rampa di lancio di Cape Canaveral. Nessuno, a guardarlo adesso, direbbe che a quell’uomo mingherlino manca appena qualche punto per conquistare il primo storico scudetto alla guida del Cagliari. È Manlio Scopigno, ma tutti lo chiamano l’allenatore-filosofo. È nato in Friuli, cresciuto a Rieti. Ex terzino, poi allenatore controcorrente e anticonformista, nemico dei ritiri e dei luoghi comuni.

Quello davanti a lui è invece uno scrittore che è diventato famoso qualche anno prima con un best-seller, lui che i best-seller li odia. Si chiama Luciano Bianciardi: maremmano di sangue, milanese d’adozione. Ha tradotto la migliore letteratura americana del Novecento. E la sua Vita Agra è perfino diventata un film con Tognazzi, ma lui invece che sul Corriere della Sera ha preferito scrivere per Playmen, Kent e Le ore, robe così. E per il Guerin Sportivo del suo amico Brera.

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