Il Dio del basket non è il Dio dei numeri

Se l'ansia da prestazione si nutre delle statistiche

  • A
  • A
  • A

Hegel dice che la lettura del giornale è la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Per dieci anni la mia preghiera mattutina, prima ancora d’alzarmi dal letto, è stata guardare i risultati delle notti NBA. La NBA ha la peculiarità di venire di notte, come la Befana, Babbo Natale e altre creature immaginarie, lasciando sul tuo comodino pacchi e pacchi di statistiche e highlights da scartare il mattino dopo. I numeri mattutini per me hanno sempre sostituito la caffeina. Negli anni del liceo, ogni mattina, con la mia faccia ancora a fondo nel cuscino, mio padre si sedeva al PC di camera mia e leggeva per me: “Cleveland vince a Boston 112 a 98. Lebron James: 27 punti, 11 rimbalzi, 6 assist… Mo Williams: 12 punti, 3 rimbalzi, 5 assist…” eccetera.

La ripetizione di questa trinità cestistica, punti – rimbalzi – assist, aveva il potere di farmi resuscitare dal sonno. Poi sono arrivati i cellulari e la recitazione di questa nenia è diventata una preghiera solitaria. Finché una mattina mi sono osservato da fuori e mi son reso conto che ormai guardavo solo i numeri: un’azionista che sfogliava gli indici di borsa.

Ho giocato la mia adolescenza nel vivaio di un’importante squadra di pallacanestro, in un periodo della vita in cui i numeri ti salvano e ti uccidono di continuo. I numeri davano a me e ai miei compagni l’illusione di capire il basket, proprio perché stavano lì a disposizione di tutti. Non eravamo nerd del basket, o comunque nulla di paragonabile ai “nerd del calcio”. Nelle discussioni cestistiche da bar il rapporto con le statistiche è molto più familiare. Nella mia squadra c’erano i fan di Lebron e i fan di Kobe. Gli uni snocciolavano la media rimbalzi e assist di Lebron, di gran lunga migliore. Gli altri chiamavano in causa i punti segnati, appellandosi anche alla iconica gara da 81 punti.

Commenta Disclaimer

I vostri messaggi 0 comments