Cosa ci resta del Lippismo?

Il suo calcio: psicologia e capacità di adattarsi

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Non può essere un caso che i più grandi successi e le più grandi delusioni della carriera di Marcello Lippi siano passate dai calci di rigore. Germania 2006, Roma 1996, Manchester 2003: momenti di grande tensione ma anche di coraggio, in cui la testa diventa tutto, quando le gambe – dopo 120 minuti di lotta – sono ormai niente. E lui stesso più volte si definisce allenatore della testa, perché la preparazione accademica, scientifica, per allenare il corpo, possono avercela tutti.

«Nel 1996 e nel 2006 – racconta – quando ho vinto la finale di Coppa dei Campioni e quella di Coppa del Mondo, prima dei rigori i calciatori mi guardavano tutti negli occhi, ansiosi di aiutare, di rendersi partecipi. All’Old Trafford nel 2003, invece, a fine partita erano tutti distratti, qualcuno si legava le scarpe, altri guardavano la moglie in tribuna. E infatti abbiamo perso». La sua decisione, quindi, di voler smettere di allenare, porta via con sé il suo modo di vedere il calcio come uno sport in cui il singolo è nullo se non c’è gruppo, la tecnica è inutile se non c’è la determinazione, e la titolarità te la devi guadagnare – davvero, non solo a parole – ogni giorno in allenamento.

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