La disciplina del vero cavaliere

La storia della scherma in Italia, parte I: dal Rinascimento a fine '800

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«La pistola non è un’arma ma un trucco volgare. Se sono disposti a uccidersi, gli uomini lo devono fare faccia a faccia; non da lontano, come infami delinquenti da strada. L’arma bianca possiede un’etica che manca a tutte le altre: la scherma è la disciplina mistica del vero cavaliere».

Le parole che, su carta, Arturo Pérez-Reverte mette in bocca al maestro Jaime Astarloa nella Madrid di fine Ottocento stanno al mestiere delle armi come quelle, scarne ma significative, che Sergio Leone, su pellicola, affida a Clint Eastwood sull’epopea del west (peraltro ispirandosi ai samurai di Kurosawa).

Per l’Italia, da sotto le Alpi fino alla Sicilia, doveva valere qualcosa di simile per le sale di scherma, fin dall’antichità, tanto che nel Cinquecento il filosofo Michel de Montaigne vi compì un celebre viaggio per visitarle nel corso del suo gran tour.

E se un percorso a ritroso nel tempo non può perdersi adesso – per questioni di spazio – fino all’epoca dei gladiatori o dei tornei medievali, vale la pena però cominciare il racconto perlomeno dal Rinascimento, quando lo spirito si riaccese in ogni contrada della Penisola e combattere a mano armata non fu più solo un mero esercizio fisico ma una delle espressioni più compiute dello spirito, al pari della filosofia, della matematica o della pittura. Ovvero una disciplina umanistica.

In Italia i frutti copiosi sono stati, ad oggi, 125 medaglie olimpiche (49 d’oro, 43 d’argento, 33 di bronzo) conquistate in 26 partecipazioni ai Giochi (esclusi quelli del 1896 e del 1904), ma le radici sono profonde perlomeno sei secoli. Perché il legame della nostra nazione col mondo delle lame è stretto come e più di quello del Sudamerica col fútbol. Eduardo Galeano notava che:

«Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio».

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