L'abbiamo sempre paragonato a un cyborg. Un esperimento vincente che, esclusa una piccola parentesi della sua straordinaria carriera, ha annichilito tutti prima che sul campo nella testa. È entrato dentro quella di tutti gli avversari del circuito e li ha fatti andare in tilt, dai campioni più celebrati ai giovani più promettenti. Ieri notte, invece, Djokovic è sembrato improvvisamente umano. Troppo umano, verrebbe da dire, per poter completare il Grande Slam, l’impresa a cui tutti guardavano, la chimera irraggiungibile del tennis. Sotto gli occhi attenti di Rod Laver, ultimo uomo a completarlo, Nole si è inceppato.
Le sue gambe da clonare si sono improvvisamente bloccate, incapaci di assistere i suoi colpi, poco agili nei movimenti di fondo campo, pigre nell’assecondare le variazioni in back sul rovescio. I capisaldi del suo gioco sono improvvisamente collassati: poco penetrante da fondo campo, spesso fuori giri nei ritmi forsennati imposti dal suo avversario. Da grande campione, Djokovic ha provato a reagire a modo suo, cambiando il piano tattico e mordendo la rete a ogni occasione, in un saggio di serve&volley quasi inedito per il serbo, che però l’ha mantenuto in scia. Ha provato a scaricare la tensione distruggendo racchette, arringando il pubblico, mettendo Medvedev con le spalle al muro davanti alla storia.
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