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CONTRASTI

Bruno Pesaola, napoletano d'adozione

Le estrose geometrie calcistiche attraverso il fumo delle sigarette

29 Mag 2021 - 09:11

Il mucchietto di cicche immancabilmente lasciato sotto la panchina dopo ogni partita, il cappotto di cammello portafortuna, le canzoni di Peppino Gagliardi fatte ascoltare (e cantare) negli spogliatoi, la sua dimensione partenopea e parte sanremese (è nella località ligure che passava sempre le vacanze e ed è lì che riposa), il gauchismo argentino mai tradito nonostante l’amore per l’Italia, l’affetto (ultraricambiato) per una città come Napoli con la cui maglia tra il 1952 e il 1960 disputò quasi duecentocinquanta partite prima di tornarvi poi in tre mandate, non tutte fortunate, da allenatore. Bruno Pesaola, per tutti e per sempre il petisso (il piccoletto) potrebbe essere racchiuso anche in questi brevi cenni molto poco tecnici, ma sono cenni fondamentali su un personaggio che di calcio sapeva molto e che molto sapeva anche di umanità, che dal calcio ha avuto e al calcio ha dato molto. Era figlio di emigranti, Pesaola, di emigranti marchigiani, e se non fosse stato per il pallone probabilmente in Italia non ci sarebbe nemmeno mai tornato, lui che si definiva spesso – sicuramente anche per l’amor di scaramanzia assai diffuso da quelle parti – “un napoletano nato all’estero”.

Eppure, ed è quasi un paradosso, la sua gloria maggiore il “petisso” l’ha vissuta a Firenze, in una città da sempre misurata, conservatrice, chiusa in se stessa, con un debole sì per le polemiche, ma non certo per qualsivolglia esuberanza – con una squadra, per giunta, le cui maglie sono di un colore che la gente di spettacolo ha sempre odiato – e dotata di una passione calcistica capace di trascendere ogni cosa, delusioni patite a getto continuo comprese. Anzi, proprio il continuo patire, unito a quell’orgoglio tipico delle città di provincia dal lussuoso passato, si può dire abbia spesso trasformato, almeno fino a qualche tempo fa, la carenza storica di gioie in carburante per nuove avventure. L’ultima e più gloriosa delle quali, lo scudetto del 1969, fu guidata proprio da Pesaola, che da allenatore portò al trionfo una squadra in cui a inizio stagione lui mostrava di credere ben più degli stessi tifosi, che a Firenze sono di una razza particolare, di quelli con la critica incorporata nei tamburi e nelle bandiere.

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