Mario Andretti, io sono leggenda

Alla Hall of Fame di Parigi l'italo-americano ha portato una carriera trionfale

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All'apertura della Hall of Fame parigina della FIA hanno fatto sensazione da una parte la “rumorosa” assenza di Lewis Hamilton, dall'altra la silenziosa “presenza” di Michael Schumacher. Nel mezzo, forse non del tutto messe nel dovuto rilievo, a noi piace ricordare anche delicatezza e profondità dimostrate nell'occasione da Mario Andretti, vincitore del titolo iridato nel 1978 con la Lotus 78 (ad inizio campionato) ma soprattutto con la sua erede 79, la prima wing car totale, capostipite delle generazione delle monoposto … in “minigonna”. In epoca moderna, praticamente contemporanea (dal punto di vista storico), Mario ha veramente vinto di tutto e dappertutto ed è forse a lui (oltre che a Graham Hill, naturalmente) che Fernando Alonso può maggiormente ispirarsi nella sua rincorsa alla “Triple Crown”.

Certo, Andretti ha vinto il Mondiale di Formula Uno e la 500 Miglia di Indianapolis (nel 1969) ma alla 24 Ore di Le Mans è riuscito ad arrivare “solo” secondo (nel 1995) e terzo (nel 1983). Gli altri successi di “Piedone” alla 12 Ore di Sebring ed alla 500 Miglia di Daytona compensano però in un certo senso la “mancanza”. Solo che, parlando di Mario, non bastano né la quantità, né la qualità. Bisogna guardare … al cuore. Alla domanda su quale fosse stato il momento più alto della sua intera carriera, Andretti a Parigi non ha citato il successo nella Indy 500 del '69 oppure il titolo iridato in Formula Uno nove anni più tardi. Lui, italoamericano di Montona (Istria), emigrato negli USA passando per un campo profughi di Lucca, ha dimostrato ancora una volta la continua gratitudine tanto per il suo Paese d'origine quanto per quello che lo ha adottato. “Vincere il Gran Premio d'Italia e quello degli Stati Uniti nella stessa stagione”, così ha riposto Mario, settantotto anni il prossimo 28 febbraio. Accadde nel 1977: vittoria al GP USA-Ovest di Long Beach in aprile, vittoria a Monza a settembre. Senza dimenticare che, tre settimane più tardi, Mario sarebbe arrivati secondo al GP USA-Est di Watkins Glen, quarto ed ultimo sigillo personale in un stagione nella quale il “nostro” ed il Team Lotus fecero le prove generali per la trionfale stagione 1978, che sarebbe stata resa purtroppo indimenticabile anche dalla scomparsa di Ronnie Peterson al via del GP d'Italia. Uno dei tanti compagni, il fortissimo svedese, che Mario ha perso lungo la strada che lo ha portato fino a Parigi, solo per guardarsi indietro e, con la sua risposta, chiudere il cerchio (il giro, se preferite) rendendo onore in modo semplice ma estremamente efficace alle sue radici mai dimenticate ed al suo sogno americano: diventato prima realtà, poi storia, infine leggenda.

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