Basket, Pozzecco: "La Fortitudo in A è un sogno. Essere costretto a vincere non mi fa paura"

Il coach dei bolognesi IN ESCLUSIVA: "Alleno per come vorrei essere stato allenato. Gattuso è un grandissimo. E io sognavo una carriera alla Totti"

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Il cuore ha le sue ragioni. Ma soprattutto il cuore ha sempre ragione. Ne serve eccome per comprendere il senso di tutto quello che racconta Gianmarco Pozzecco. Serve la voglia di emozionarsi per poter entrare nel suo mondo e dare un senso a certe apparenti contraddizioni. Così si arriva a capire la metamorfosi di un uomo prima ancora che di uno dei personaggi più esplosivi, unici e carismatici del basket italiano. Serve ascoltarlo con la purezza tipica della sua sincerità, con la sana follia che resta sempre un po' nella sua indole, con la passione di chi racconta se stesso da giocatore e ora da allenatore passando per le ambizioni della Fortitudo e il suo modo diverso di vivere la pallacanestro grazie alla presenza della compagna. Poi Gattuso, Totti, la Nazionale, una promessa fatta col sorriso, lo stress e le emozioni che lo hanno portato a tornare a Bologna nonostante avesse giurato di non fare mai più certe scelte. Perché alla fine il cuore ha sempre le sue ragioni. Benvenuti nel mondo del Pozz.

E' proprio Pozzecco, coach della Fortitudo Bologna, a fare da padrone di casa nel nuovo centro di allenamento della "Effe", l'Academy Sport Village, nella quiete e nella serenità di Castel Maggiore. La storia e la tradizione di una delle società più blasonate d'Italia sono un fatto concreto, qui: ai lati dei due campi dove Mancinelli e compagni preparano i playoff, giganteggiano le foto dei campioni del passato, dei simboli della Fortitudo. Quasi a volerlo evocare, chiamare con forza, quel passato, per portarlo nel presente. Che si cerca di fa tornare ad essere splendente come ai tempi di Basile, Carlton Myers, Alibegovic, Belinelli. O di Pozzecco. 

"Sono molto orgoglioso di essere venuto ad allenare qui. Da professionista serio io ho giocato in tre posti: Varese, Capo d'Orlando e Bologna e venendo qui ho chiuso un cerchio riuscendo così ad allenare tutte e tre le squadre in cui sono stato da giocatore. Mi piace pensare che questo sia dovuto al fatto che io sia stato apprezzato come persona, mi piace pensare di aver lasciato qualcosa dal punto di vista umano" inizia a raccontare il Pozz. 

Come si sta su una panchina così prestigiosa?
"Lo stress ti può condizionare molto nel nostro lavoro. Tutti pensano che allenare la Fortitudo sia più complicato perché hai una certa esposizione, ci sono determinate aspettative ed è tutto vero. Però è anche vero che ognuno caratterialmente reagisce in modo diverso: io la pressione me la creo da solo perché mi piace fare sempre bella figura".

La Fortitudo in questi playoff è tra le favorite e, per quella che è la sua storia, è quasi condannata a vincere 
"Allenare una squadra costretta a vincere significa vincere spesso e quando vinci stai bene. Fin qui è stato quasi rilassante anche se ora arriveranno partite che ti mettono più pressione; però di contro se alleni una squadra scarsa perdi anche più spesso. Mi trovo bene a vivere in un contesto vincente perché mi piace di più allenare una squadra che vince, quindi preferisco anche ritrovarmi nel ruolo di favorito, di quello costretto a vincere. Ai playoff se perdi vai a casa e se succederà soffrirò le pene dell'inferno. A Varese, ad esempio, ho sofferto molto perché durante l'anno perdevamo spesso e io questa cosa non la riuscivo a gestire". 

Cosa sei disposto a scommettere pur di portare la Fortitudo in A?
"Tutto, faccio quello che volete, qualsiasi cosa perché la promozione è un sogno".

Puoi essere un valore aggiunto per questa squadra?
"Ma io veramente sono più preoccupato di quello che posso togliere piuttosto che di quello che posso dare in più. Secondo me spesso un allenatore condiziona in maniera negativa il suo gruppo e lo fa rendere meno di quanto potrebbe. Due grandi allenatori che stimo molto sono Meo Sacchetti e Recalcati che hanno vinto tanto perché non hanno fatto danni. E un allenatore spesso ne fa".

Non stupisce che a dire questo sia uno come lui, che quando giocava reputava quella dell'allenatore una figura nemmeno tanto necessaria. Ecco una di quelle apparenti contraddizioni ma, dal punto di vista del Pozz, tutto ha una spiegazione: "La parte più bella della mia vita l'ho vissuta ed è quella in cui ho giocato. Giocare e allenare sono due cose diverse, anche dal punto di vista etimologico. Nel giocare c'è l'aspetto ludico. Mi reputo estremamente fortunato perché fino ai 35 anni mi sono divertito di brutto, ho vissuto una vita pazzesca e ora quello che cerco di fare è far sì che loro, i miei ragazzi, vivano le stesse cose. Poi come allenatore ho delle responsabilità rispetto alla società e ai tifosi e devo far sì che i loro sogni combacino con quelli dei miei giocatori. E i miei giocatori devono vivere delle emozioni tutte loro, emozioni che io non ho più bisogno di vivere direttamente ma che posso vivere tramite loro con una sorta di gratificazione indiretta".

Il Pozzecco allenatore, infatti, è molto diverso dal Pozzecco giocatore
"Ora faccio una vita completamente diversa da quando giocavo. Mi sveglio alle 6 del mattino e sono contento di accarezzare il gatto o di stare con la mia compagna con cui sono assieme da sei anni e con la quale spero di avere dei figli. E questa sorta di metamorfosi che sto vivendo mi rende l'allenatore che vorrei essere. Poi i risultati, purtroppo, nello sport non dipendono solo dall'impegno e dalla determinazione. Soprattutto quando alleni".

Ma il Pozz allenatore sarebbe felice oggi di avere un giocatore come lui stesso è stato?
"Io alleno per come vorrei essere stato allenato. Non vorrei sembrare presuntuoso ma lo sono se si parla del Gianmarco giocatore. Secondo me io ero molto forte e quindi avevo dei vantaggi. Difendevo poco ma ero talmente forte in attacco che l'allenatore era comunque contento e gratificato. Oggi i giocatori così forti in attacco vanno a giocare in Nba. Quindi se mi chiedi se sarei contento di allenare uno come me ti dico di sì perché secondo me ero molto bravo. I giocatori bravi della mia generazione erano meno numerosi ma migliori di quelli che oggi sono considerati bravi bravi. Oggi accettare le bizze o il fatto che uno sia una stella, come lo ero io, non è una cosa che vale la pena fare perché il gioco non vale la candela; significherebbe stravolgere le regole o accettare comportamenti magari non eticamente corretti senza essere ripagati con delle prestazioni che davvero facciano la differenza". 

A proposito di allenatori: ti piacerebbe essere definito il "Gattuso del basket"?
"E' un paragone che mi lusinga perché reputo Gattuso un grandissimo. Oggi la gestione del gruppo è un aspetto fondamentale ed è più difficile che in passato quando in una squadra l'85% dei giocatori erano italiani e c'era una cultura omogenea. Oggi creare una filosofia unica è più complesso e la personalità dell'allenatore è determinante. Ma il saper dare la carica e avere giocatori disposti a buttarsi nel fuoco per te deve essere supportato dall'aspetto tecnico sennò il castello crolla. Gattuso tecnicamente è più forte del 90% degli allenatori di Serie A anche se il suo modo di porsi fa sì che tutti vedano soprattutto il suo lato umano e caratteriale. E' bravo tecnicamente e tatticamente".

Magari anche a te è capitato di essere giudicato più per l'aspetto caratteriale che tecnico...
"Me la sento addosso anche io questa cosa, sì. Mi dicono che dovrei stare più calmo e far vedere altri lati di me ma io rispondo 'no, sono fatto così'. Poi capisco anche di basket anche se questo non vuol dire essere un bravo allenatore. Gattuso lo è sicuramente, io non lo so". 

Il Pozz è fatto così, uno che si lascia trascinare dalle emozioni fino a farsi travolgere e coinvolgere più di ogni altro. Tanto che poi, ad esempio, con Capo d'Orlando e Varese ci furono addii molto sofferti che lo portarono alle lacrime, a un dolore vero. "Ma precludersi delle emozioni perché potresti soffrire non ha senso. A Varese e Capo sono stato totalmente condizionato dal mio coinvolgimento emotivo. Infatti dissi che non avrei mai più allenato squadre in cui avevo giocato ed eccomi qua" dice col sorriso di chi vuole sottolineare, ancora, di essere fatto proprio così. "E' come nel rapporto con una persona, se ti innamori non è che pensi al rischio di poter soffrire. Io in Fortitudo ho vissuto da Dio e quando sono stato chiamato, e per questo voglio ringraziare il Presidente, non mi sono voluto privare della gioia di tornare dove avevo vissuto tante emozioni. Ma l'esperienza mi ha insegnato a volerle gestire ora, certe emozioni, a vivere la pallacanestro in modo più distaccato per riuscire ad essere più lucido. A Varese quando mi strappai la camicia non ero per nulla lucido, ad esempio". E di nuovo ritorna il sorriso di quello "fatto così". Prendere o lasciare. "Vado alla ricerca di una maggior tranquillità che mi permetta di allenare meglio". 

Se ci riesce, il merito è di chi gli sta vicino, e anche qui tornano in ballo le questioni di cuore. Perché alla domanda 'cosa differenzia principalmente il Pozz giocatore dal Pozz allenatore', dopo una lunga pausa e con un'espressione che si fa all'improvviso seria spiega: "La persona che ora ho vicino e che prima non avevo. Le mie fidanzate non venivano mai prima della pallacanestro, erano sempre al secondo posto. Oggi la pallacanestro resta importantissima per me ma la mia compagna è sullo stesso piano, o forse un gradino sopra. Questo mi permette di vivere il basket in maniera più rilassata, cosa di cui ho bisogno come allenatore". 

Da giocatore hai realizzato tutti i tuoi sogni? E adesso cosa sogni?
"Da giocatore ho vinto poco ma sono stato uno dei più famosi. Ora sogno che si avverino i sogni dei miei giocatori". 

Ma anche Totti, ad esempio, non ha vinto tantissimo in carriera...
"La gente non capisce quanto sia gratificante quello che ha vissuto Totti. In Italia siamo poco rispettosi e abbiamo la memoria corta ma quello che lui ha fatto vivere a Roma va al di là di qualunque trofeo, è un qualcosa di molto più bello da vivere perché resterà in eterno e vale molto più di una Champions. Una volta dissi che ero dispiaciuto per non aver fatto la scelta che ha fatto Totti di rimanere per sempre a Varese. E' anche vero che se fosse andata così non avrei avuto modo di conoscere Capo d'Orlando e la Fortitudo, posti che adoro e che mi hanno dato tantissimo. Però sì, se tornassi indietro resterei a Varese tutta la vita". 

Tu con la Nazionale hai vinto un argento olimpico nel 2004 ma negli ultimi anni, nonostante la cosiddetta "generazione di fenomeni", gli Azzurri hanno sempre deluso
"Siamo stati condizionati mentalmente dal fatto di avere 4 giocatori Nba, che sono fenomenali ma anche le altre nazioni ne hanno mentre una volta erano pochissimi, casi rari ed erano veramente giocatori di un altro livello. E poi l'Italia vince solo quando è "underdog", quando parte sfavorita. E' così nel calcio, pensiamo ai Mondiali dell'82 e del 2006, ed è così nel basket. Noi nel 2004 eravamo una banda di squinternati e la gente pensava che non avremmo vinto nemmeno una partita, figuriamoci una medaglia...". Insomma, si vince quando oltre al talento c'è anche tanto cuore. Perché alla fine diventa sempre una questione di cuore, nel mondo del Pozz.

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