Ali, il più grande di sempre

Sportivo e uomo unico: ha cambiato la storia dello sport

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Era leggero come una farfalla e pungente come un'ape.
Era nero, orgoglioso di essere nero.
Era spavaldo, ironico, provocante.
Era moderno, consapevole della propria forza.
Era il più grande. Il più grande è rimasto.
Muhammad Ali è morto a 74 anni. Era malato da tempo, morbo di Parkinson, niente che gli abbia impedito in questi anni dolorosi di mostrarsi così diverso da come si mostrò. Un'iradiddio, sul ring e fuori. Sempre.

Nella sua storia ci siamo noi, comunque, non importa l'età. C'è l'America per come la trovò lui, nato nel '42. Razzista, violenta, in un galoppo da dopoguerra; c'è il ritmo travolgente del jazz che è nero da sempre e per sempre, c'è la protesta di Martin Luther King e quella più estrema di Malcom X. E c'è la boxe, con i soldi, le scommesse , la mafia, i neri, di nuovo, a fare a cazzotti. Lui, diverso, unico, sin dagli esordi, dall'oro alle olimpiadi di Roma, 1960, una medaglia gettata via per cominciare con una ribellione clamorosa a dare un senso più largo al proprio destino.

Era elegante, del resto, bello anche dopo 14 riprese filate, pronto a ricominciare, a cambiare religione e nome. Non più Casius Clay –un nome da schiavo disse- ma Muhammad - che significa Degno di Lode - e Ali - che significa Altissimo. Musulmano nero, per nulla interessato all' integrazione. Abbastanza per continuare a viaggiare contro. Contro avversari da abbattere clamorosamente. A cominciare da Sonny Liston, campione del mondo in carica, 1964, un match per scaricare la sua rabbia, la sua gioia, un intero repertorio da consegnare alla storia. Contro ogni convenzione che stabiliva i ruoli in ragione della razza. Contro il proprio paese che gli chiedeva di andare a combattere in Vietnam anche se nessun vietnamita- come spiegò- l'aveva chiamato negro.

Un rifiuto che gli portò via il titolo mondiale e la libertà. Che non fermò la sua voglia, la sua lingua poetica e tagliente, che non fermò i suoi pugni, abbinati ad una mobilità da ballerino, ad una intelligenza svelta. Parlava, parlava, parlava. Un filo di seta dentro un'epoca densa, un uomo capace di filare parallelo alla corsa verso la luna, alla musica dei Beatles, ad una protesta giovanile che poteva comprendere nel profondo, al crollo di Richard Nixon, travolto dal Watergate. Nixon dopo John e Robert Kennedy, dopo Luther King e Malcom X, i caduti di una rivoluzione fatta con parole e pallottole, ombre e rimpianti. Lui andava avanti. Testa, testa alta, una potente, sottilissima strafottenza.

I match del secolo? Più di uno. Contro Joe Frazier, 1971 e soprattutto contro George Foreman. La data 30 ottobre 1974. Il luogo. Kingshasa, Zaire, Ali Doveva crollare. Foreman era pià giovane di 7 anni, era una furia, era imbattuto. Lui trasformò la lunga vigilia in un match di logoramento, l'Africa in un luogo proprio, rapidamente conquistato, gli africani un enorme fan club. Un lungo capolavoro con un gran finale. Una scena teatrale, tragica e magnifica. Foreman che crolla, lui che si astiene mentre osserva la fine dell'altro, il proprio trionfo.

Ci ha lasciato, ora, ma importa ciò che resta, ciò che è stato. E' stato bellissimo. Energia e poesia. Palle e cuore. Un esempio buono per chi ha talento da sport e di vincere e basta non si accontenta affatto, proprio no. Così, grazie, mister Ali. Con orgoglio... Mentre viene voglia di sapere ancora, di riguardare all'infinito, di ritrovare quel ritmo, intatto e magico. Così com'era. Proprio quello, questo qui.

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